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Tende, alberghi e sistemazioni provvisorie. Amatrice e i fantasmi del terremoto

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(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

«Più che gli psicologi, qua ci vorrebbero gli esorcisti», dice Pina, ridendo. Entriamo in un garage in una delle frazioni di Amatrice, che un gruppo di terremotati usa per riunirsi e mangiare, ora che non si può più accedere alle case. Ci trattano subito come amici di famiglia e ci offrono immediatamente un piatto di pasta – all’amatriciana, ovvio. Le case fuori hanno le facciate crepate, la strada è tagliata da un cordone, e dietro s’intravedono altre macerie. Un vicino con un grosso trattore lavora per liberare la strada dai resti di un muro crollato. Noi naturalmente non chiediamo niente: ma i racconti della notte del 24 agosto si susseguono uno dietro l’altro, a raffica. Sembra che tutti abbiano bisogno di raccontare. Le loro storie fanno venire i brividi; ma le raccontano con ironia, con sarcasmo, ridendoci su. Anche i bambini partecipano, ridono pure loro e intervengono raccontando le loro storie, altrettanto terribili. «Per avvolgere i pezzi dei cadaveri hanno usato il Domopak, sennò se li perdevano!»; «E quel morto, che per sbaglio l’hanno spedito in Romania? Era caduto nel letto della romena, dal piano di sopra!». E giù a ridere. Non so se gli esorcisti siano una soluzione; di certo serviranno forze sovrumane per tenere insieme quello che queste persone hanno vissuto e portano dentro.

Ad Amatrice sono morti quasi il dieci per cento degli abitanti. Le vittime sono state poco meno che a L’Aquila, ma in un paese di duemila e seicento persone, invece che in una città di settantamila. C’è chi ha perso tutta la famiglia; altri sono stati più fortunati, ma hanno visto morire intorno a sé un’infinità di amici e conoscenti. In un’altra casa che visitiamo, Concettina ci dice: «Delle persone che salutavo ogni mattina per aprire il negozio, ne sono morte undici». E ci fa la lista: quella del bar, la parrucchiera, il negozio accanto… rievocando la normalità perduta di quella passeggiata del passato. Ora tutto il centro storico è chiuso e la maggior parte dei terremotati rimasti nel cratere sono nelle settanta frazioni intorno al paese, che ospitano anche la maggior parte delle tendopoli. Protezione civile, vigili del fuoco, esercito e polizia sembrano ormai superare in numero gli abitanti, e senza dubbio sono quelli che circolano di più per le strade che uniscono il paese alle frazioni. «Sono andati via tutti, sono rimaste solo le forze dell’ordine», dice Sara, che ha gli occhi persi, come assente: sta per alloggiarsi nella seconda casa della mia accompagnatrice, che da Roma è venuta per offrirla a una famiglia di terremotati. Ma non sa cosa deve fare, né come farlo. Il comune ha lanciato il progetto “Amatrice solidale” per fare da tramite tra i terremotati e i proprietari delle seconde case; una volta messi in contatto, però, poi devono vedersela tra loro, senza garanzie né controllo da parte delle autorità.

La Protezione civile ha annunciato la chiusura delle tendopoli a fine settembre: l’autunno è freddo tra i monti della Laga e tutti gli abitanti rimasti hanno dovuto cercare una seconda sistemazione provvisoria, chi da parenti, chi in affitto. Il comune eroga un “contributo di autonoma sistemazione” di duecento euro a persona, fino a un massimo di seicento, con cui alloggiarsi dove si vuole, purché la casa sia dichiarata agibile. Ma ad Amatrice se ne trovano poche; per cui molti si stanno spostando a Rieti, ad Ascoli, o comunque lontano – anche perché ad Amatrice non c’è più lavoro. Ad aprile – tra sei mesi – arriverà la terza sistemazione provvisoria: i Map (Moduli abitativi provvisori), annunciati dal sindaco come la “resurrezione di Amatrice”. Gli appalti per questi moduli hanno suscitato grandi polemiche: ognuno costa al metro quadro più di una villa con piscina nella zona, e l’impresa appaltatrice è legata al consorzio di Mafia capitale (lo ha raccontato Fabrizio Gatti su L’Espresso, e prima di lui News-town). Nonostante ce ne fossero moltissimi disponibili di seconda mano, tra L’Aquila e l’Expo di Milano. Ma per gli abitanti il problema principale è soprattutto capire se, dopo essersi ambientati in altre città e paesi, dopo aver portato i bambini a scuola altrove, ce la faranno a tornare ad Amatrice nei Map, in quelli che sarebbero per molti la quarta sistemazione provvisoria, tra le macerie del paese.

Dopo il terremoto, intere comunità, anche non completamente devastate – come Accumoli, l’epicentro, ma anche le sue frazioni Grisciano e Illica – si sono trasferite in albergo a San Benedetto del Tronto, a un centinaio di chilometri. Il simbolo della dispersione della popolazione è la nuova scuola: i bambini sono circa la metà di quelli che c’erano prima del sisma. Costruita a tempo di record e inaugurata in pompa magna per dimostrare le capacità dell’amministrazione comunale di gestire l’emergenza, la scuola ha dovuto chiudere poco dopo per alcuni giorni: c’erano problemi strutturali da risolvere. Quando smantelleranno le tendopoli i bambini saranno ancora meno: a breve resterà ad Amatrice solo chi ha gli animali, o chi lavora al comune, non certo abbastanza famiglie per poter riempire una scuola, meno che mai il paese. «Amatrice non rinascerà», dicono in molti, tra cui Pina, che sta prendendo una casa in affitto ad Ascoli. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, che insistono sull’efficienza degli interventi, sulla rapidità della futura ricostruzione, sulle grandi doti dimostrate dal sindaco nel gestire l’emergenza, Pina si sente obbligata ad andare via. Le mancheranno le montagne, si organizzerà per adattarsi alla vita di città, ma soprattutto le mancherà il tessuto connettivo che può permettere a lei e alla sua famiglia di rielaborare il trauma insieme a chi lo ha vissuto con loro. Come a L’Aquila, la gestione del terremoto, e soprattutto la gestione dello spazio dopo il terremoto, rischiano di amplificare gli effetti del dolore provocato dai morti e dalle distruzioni.

A casa di Concettina è appoggiato anche Giovanni, suo genero. Nonni, zii, nipoti, sono rifugiati nell’unica casa di famiglia rimasta in piedi, in un’altra frazione. Mentre Giovanni racconta le storie di quella notte, una dietro l’altra, capisco quanto i terremotati abbiano bisogno di ripeterle in continuazione, anche tra di loro, ma soprattutto approfittando di ogni occasione, di ogni visita, per rivivere quei momenti in ogni dettaglio. Luca, il figlio di otto anni, conosce già tutte le storie e prende in giro il padre, tra le battute della madre, dei nonni, degli zii, che a loro volta raccontano le loro. Raccontano di una ragazza della loro frazione che quella notte è corsa ad Amatrice a cercare il fidanzato, e che saltando sopra le macerie sentiva intorno a sé le grida degli intrappolati che imploravano soccorso: ma non poteva fermarsi. Il figlio chiede perché, e il padre gli spiega: «Prima devi salvare te stesso, poi le tue persone care, poi lasciare che arrivino i soccorsi, perché non devi metterti in pericolo. Devi provare a salvare le persone solo se te le trovi proprio lì davanti e sai come fare». Parla al figlio dolcemente, accarezzandogli la mano, forse anche per compensare il fatto di non poterlo proteggere dalla morte e dal dolore che lo hanno circondato. Giovanni ha già collezionato tre terremoti: ha perso la casa di Napoli in quello del 1980; nel 2009 la moglie era ricoverata all’ospedale de L’Aquila per dare alla luce Luca, quando il terremoto le ha bloccato le contrazioni. Infine hanno vissuto quello di Amatrice.

Negli alberghi di San Benedetto del Tronto, ne sono certo, i sopravvissuti non fanno altro che ripercorrere queste storie insieme, giorno dopo giorno, avviandosi lentamente alla ricostruzione delle loro vite. Ma cosa succederà quando dovranno lasciare gli alberghi, ritrovandosi separati gli uni dagli altri, ognuno in una diversa città o paese, senza un gruppo intorno a loro con cui socializzare il trauma? Centinaia di volontari, tra cui le Brigate di solidarietà attiva, che hanno montato un campo in una frazione di Amatrice, sono accorsi a dare il loro appoggio. Ma se Amatrice viene dispersa per tutto il centro Italia, dove bisognerà andare a dare sostegno? Alcune grandi studiose (per qualche ragione sono quasi sempre donne) del displacement urbano, per esempio quello che ha seguito le grandi riqualificazioni dei centri storici, o i trasferimenti pianificati come quello dei Sassi di Matera, hanno spiegato come lo spazio fisico serva da supporto per evitare l’alienazione e la disgregazione sociale. La dispersione spaziale provoca un disorientamento profondo, che riduce le capacità delle persone di superare le situazioni di crisi. Ernesto De Martino la chiamava “angoscia territoriale”; Amalia Signorelli l’ha ritrovata a Pozzuoli dopo il bradisismo, Maria Immacolata Macioti tra gli ex abitanti di Valle Aurelia a Roma, Mindy Fullilove tra gli abitanti dei “ghetti” neri statunitensi, deportati dai centri storici più di cinquant’anni fa.

Le conseguenze delle scelte che si faranno in questi giorni su Amatrice saranno profonde e durature. Ma quanto ne sono coscienti le autorità che gestiscono il post-sisma? Oltre alle esigenze immediate di casa, alimenti, scuole per i bambini, ci sono altri bisogni vitali per gli abitanti. Uno è quello di rimanere uniti, per evitare che i ricordi del 24 agosto si trasformino in ossessioni individuali, in famiglie disfunzionali, in traumi permanenti – insomma, in fantasmi. (stefano portelli)

Per ulteriori approfondimenti si veda quest’articolo di Giovanni Gugg, e quest’altro di Vito Teti.

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